di Marco Pellitteri

Vorrei dire innanzitutto che io a John Buscema chiesi un Silver Surfer e lo ottenni, anche se dopo qualche simpatico grugnito (forse avrei dovuto chiedergli Hulk).

Era una Lucca Comics di molti anni fa, forse il 1998. Ai geek di livello supersayan dico: se volete saperlo, andatevelo a cercare su internet, l’anno in cui John Buscema era a Lucca.
Insomma, ero in fila, una lunga fila, per chiedere un disegno a John Buscema. Egli, come tutti i grandi, non si risparmiava. Non chiedeva l’acquisto del fumetto. Non gliene fregava un fico secco. Era felicissimo di essere nella sua Italia, lui, italoamericano; se non lo sapete, gli italoamericani sono praticamente i cofondatori, insieme al gruppo ebreo-americano, del comic-book, supereroico e non.
E John il grande sfornava disegnini assortiti. Quasi tutti gli chiedevano Conan.
Ora, davanti a me, in fila, c’era un giovanotto della mia età o poco più, castano, con gli occhialetti da geologo. Sì, esatto, il nostro uomo. Non vivendo io particolarmente lontano dal mondo dei fumetti, l’avevo riconosciuto. Non che Leo Ortolani fosse famoso. Non lo è nemmeno ora, intendiamoci. Non se lo fila nessuno al di fuori del settore dei fumetti! Ma dentro questo mondo egli è veramente un Vendicatore, e forse fra anni e anni assurgerà al rango di Eterno. Spero che le metafore kirbyane gli piacciano. Credo sortiscano su di lui un effetto onanistico.

Ecco, Ortolani aveva già una quasi prestigiosa nomea nel mondo dei fumetti italiani. Faceva pisciare sotto dalle risate, il suo Rat-Man, come fa pisciare sotto ancor oggi. Tredici anni fa, in più, c’era ancora l’effetto sorpresa: un fumetto italiano umoristico che faceva ridere veramente un sacco, invece di suscitare solo sorrisi benevoli e risatine di circostanza. Il riso provocato da Rat-Man è, mutatis mutandis, come l’orrore provocato da romanzi di Stephen King quali It o L’ombra dello scorpione. Quando li leggi, poi per ristabilirti, prima di spegnere la luce del comodino, devi leggere qualcos’altro. Dopo aver letto It dovevo trastullarmi con qualche pagina di Wodehouse, sennò avrei avuto difficoltà ad addormentarmi per la strizza. Dopo aver letto Rat-Man devo sfogliare due o tre pagine di qualche presunto graphic novel italiano, per farmi cadere le braccia a terra e sprofondare in fase rem. Sennò continuo a ridacchiare in modo inconsulto. Come Stephen King con la paura che ti entra sottopelle e ti provoca brividi inattesi anche a distanza di tempo, così Leo Ortolani – ho il sentore che questo concetto sia © di Andrea Plazzi, ma è un amico e non si scomporrà se lo riuso – è il mago dell’umorismo sottopelle, quello che ti coglie a tradimento anche dieci minuti dopo che hai letto quella data gag. Ci ripensi e ri-scoppi a ridere come se fosse una specie di conato di vomito. Mi perdoni Leo per l’alta metafora. Del resto l’umorista è lui, io scimmiotto solo.

Tornando a Lucca e a Buscema: non so che disegno Ortolani avesse chiesto. Ma il fatto che fosse in fila con me (con noi) mi fece un bell’effetto. Ecco, dissi, un fumettista che è un lettore e devoto seguace dei suoi maestri. Certo non è il solo. Però non tutti i fumettisti professionisti si mettono lì in fila a chiedere il disegno al maestro. Ci vogliono una sincerità interiore, una genuinità e una cristallinità del carattere, nonché una sana lucidità sul senso delle proporzioni, su di sé e sul mondo; sono questi i tratti che fanno di un autore una persona piacevole con cui stare in fila. E con cui chiacchierare a cena.
Tanto per dire, a Romics, nel 2009, per sbaglio ho scambiato un altro noto fumettista (eh, chi è non ve lo svelo; vi dico solo che m’è parso un po’ tronfio) proprio per Leo Ortolani. M’ha squadrato come un microbiologo avrebbe fatto coi suoi vetrini, manco lo avessi preso per un usciere o per l’autore di Kill Killer. In fondo l’ho scambiato per uno stimato collega. E poi insomma, aveva anche lui gli occhiali. Non è facile distinguere un fumettista dall’altro, in faccia; diciamoci la verità, si somigliano un po’ tutti e sono pure bruttini (fatta eccezione per le fumettiste, che sono tutte delle bonazze spaziali).

Forse ho perso il filo, ma non importa. Sono contento di aver espresso un elogio di Leo Ortolani così squinternato, una volta tanto. Noi studiosi di fumetto ci annoiamo spesso, dentro ai nostri gabinetti, a essere so serious nei confronti di queste storielle disegnate, come se si trattasse di vera e propria arte (popolare o alta che sia), quando vanno prese per quel che sono: intrattenimento a basso costo, di poche pretese, ed è in quest’ottica a mio avviso che diventano grandi e importanti per l’umanità. Leo Ortolani è uno dei massimi interpreti odierni di questa grandiosa, semplice, statuaria e irrinunciabile concezione del fumetto. Sa far ridere, sa disegnare, sa citare e sa inventare. È di suo una bella persona e questo potenzia a dismisura la sua bravura e il suo successo. Il pubblico questo lo vede, lo sente nel leggere le sue storie ed è per questo che i suoi fumetti vendono bene e rimarranno dei classici della comicità italiana.

M.P.
Colonia, maggio 2011

Marco Pellitteri (Palermo 1974), sociologo dei processi culturali e dei media, specializzato nei linguaggi del visivo. Autore di numerosi libri e articoli editi in Italia e all’estero. È direttore scientifico della casa editrice Tunué, per cui cura le collane di saggistica. È inoltre curatore e traduttore di libri e articoli di argomento sociologico, economico e riguardanti fumetto e animazione. In genere scrive testi pallosissimi e serissimi, stavolta invece si è divertito a cambiare registro. Speriamo un po’ anche voi. In caso contrario, la colpa è, e clamorosa, di Clausi.