Antonella Lattanzi ha raccolto una lunga intervista a Leo Ortolani pubblicata in Rete qua e là. Potevamo restare indifferenti a cotanto evento? Ebbene, su invito della stessa autrice abbiamo pubblicato l’intervista integrale per consegnarla all’immortalità!

Leo Ortolani – L’uomo, il genio, il mito, il ratto, il Rat-Man

Intervista di Antonella Lattanzi rilasciata il 18/10/06

Scrive Paolo Nori a proposito del Ratto e del suo papà:

E anche se Rat-Man come fumetto ha una caratteristiche che a me sembra stranissima, cioè il fatto che la voce del narratore, che in un fumetto si legge in quei rettangoli in alto che non so che nome tecnico abbiano, anche se in Rat-Man la voce del narratore è, alternativamente e con una naturalezza che sorprende, sia in prima che in terza persona, anche se Leo Ortolani è riuscito nei suoi fumetti a gestire naturalmente sia la prima che la terza persona, cosa in letteratura difficilissima e che riesce solo ai grandi narratori, evidentemente nei fumetti deve essere più facile perché queste caratteristiche nei fumetti di Rat-Man, sono sincero, non mi fanno nessun effetto.

Tra le tante cose che Palo Nori scrive a proposito di Rat-Man, con il suo inconfondibile tocco ironico qui sapientemente diffuso di affetto e di vera e propria ammirazione umano-artistica, queste suddette – insieme al “basso tasso esclamativo” dei fumetti di Ortolani – sono a mio avviso le caratteristiche veramente più sconvolgenti del tocco di Ortolani.

Un fumettista che fa anche letteratura. Un fumettista insieme esilarante, spietato, comico, e profondamente commovente. Uno che prende il via motteggiando i tic dei supereroi e che, giorno dopo giorno, tavola dopo tavola, partorisce uno stile (un prodotto diremmo se non si trattasse di arte vera e propria), degno di essere incluso ne I classici di “Repubblica”, tra i più grandi fumettisti mondiali, insieme a Moebius, Pazienza, Altan, Hugo Pratt e altri nomi enormi.

Leo Ortolani è un personaggio sconvolgente. Insieme così umano e così divino. Un uomo che, a mio avviso, mescola sapientemente l’applicazione quotidiana all’estro creativo, l’intuizione del momento allo studio, uno che non si prende mai troppo sul serio ma che prende molto sul serio il proprio lavoro, uno che non scende a compromessi, per così dire, di mercato, ma che riscuote ugualmente un enorme successo di pubblico e di critica. Un autore che è anche un uomo, prima di tutto. Un genio, a mio avviso. Un vero e proprio genio.

Eccolo.

A.L. – Si dice di te che il rapporto che hai con i lettori è qualcosa di veramente speciale, che alimenta il tuo successo e soprattutto la tua creatività al pari della tua genialità, del tuo umorismo, della tua ferrata conoscenza del mondo Marvel anni Sessanta-Settanta, cui spesso ti riferisci. Sono sicura che è vero. Ma c’è un momento in cui la tua popolarità, la tua simpatia, il tuo charme (!) rischiano di soffocare la dedizione e la calma necessarie per fare un mestiere come il tuo? Se sì, quando?

L.O. – Per rispondere a un’intervista ci vuole sempre un po’ di musica. Metto su “the Phantom of the Opera”, così capisci subito con chi hai a che fare. Con chi mi impersono veramente. Cioè il trovarobe che nella seconda parte del musical viene trovato impiccato. Il rapporto con i lettori è sempre una bella cosa, l’ho voluto perché essendo timido, quando vado alle fiere del fumetto posso parlare con qualcuno, fingendo charme, qualunque cosa essa sia. Poi, siccome la calma e la tranquillità che posso dedicare a ogni numero di Rat-Man è spesso pari a quella di uno che deve andare a fare la cacca sul diretto Milano Centrale – Bologna, con la porta che non si chiude, il rapporto con i lettori diventa un piacevole diversivo e a volte, come accennavi, anche propositivo. Che infatti qualche frase, qualche critica, qualche suggerimento ogni tanto filtrano e contribuiscono in parte a dare il “la” per la creazione della storia nuova. L’unica cosa che soffoca il mio mestiere, in fondo, sono le interviste. Scherzavo! Ah! Ah! Ah! Dai, scherzavo… Dai… Dove vai?… Ma piangi?. Ma scherzavo! Dai! Toni!… (calando di intensità, come se si allontanassero)

In Italia, il fumetto è diventato un’arte da pochissimo tempo. A questa splendida scoperta, hanno collaborato, nel tempo, autori italiani come Tamburini, Scozzari, Pazienza, Eccetera (cugino italiano dell’Eccetera americano, cit.), come te, trasversalmente, in maniera sempre maggiore. Che rapporto hai avuto, negli anni Settanta, con le autoproduzioni come Il male, Totem, Frigidaire, Frizzer, eccetera?

Una volta, che ero piccolo, vidi in un’edicola il primo numero di Cannibale, quello dove c’era il tipo che si mangia da solo, e rimasi molto impressionato. Nella stessa edicola compravo invece Barbapapà, che a me è sempre piaciuto un sacco, e avevo anche i pupazzetti. Io ero naturalmente Barba-Barba, il pittore, mentre mio fratello era Barbidu, quello giallo, che ama gli animali. Era Barbidu? Non mi ricordo… In effetti sto prendendo tempo, perché ho avuto pochi contatti con le riviste e gli autori che tu citi, e anche adesso, che sono cresciuto (o meglio, che sono invecchiato fisicamente), tra questi grandi autori e Barbapapà, so che la mia mano calerebbe a sfogliare Barbapapà. L’unica che ho veramente letto è stata Totem, che c’erano un sacco di cose divertenti, come i fumetti di Edika, che un po’ mi hanno insegnato i tempi comici. Però non ho conosciuto Totem fino alla fine degli anni Ottanta. Quindi questa risposta non vale.
Comunque il fumetto è sempre stato un’arte, solo che nessuno lo ha mai preso sul serio. E comunque nemmeno adesso viene preso del tutto sul serio. Forse la colpa è delle interviste agli autori, non so… Molti smettono di leggere fumetti appena trovano di meglio, un meglio quasi sempre connesso al miracolo della natura che cerca di riprodurre se stessa.

Cosa pensi dell’evoluzione – o dell’involuzione – del fumetto italiano, dagli anni Sessanta a oggi? e di quello mondiale?

Questo è perché ho detto che mi piaceva Barbapapà? È per questo che adesso mi fai questa domanda difficilissima? La risposta è molto semplice… EHI, guarda là, uno pterodattilo! (rumore di passi che si allontanano veloci)

Com’è cambiata la letteratura disegnata, l’arte fumettistica, nel tempo?

Dov’è Andrea Plazzi, quando ho bisogno di lui?… Queste domande mi riportano sui banchi di scuola, dove spesso non sapevo cosa rispondere tranne che… EHI! Laggiù! È lo pterodattilo di prima!(rumore di passi che si allontanano veloci)

Io credo che anche per il fumetto valgano le massime “si stava meglio quando si stava peggio”, “eravamo più felici quando eravamo poveri” e “chi più ne ha più ne metta” (quest’ultima non c’entra). Voglio dire che prima c’era più probabilità, per i giovani talentuosi, di emergere, di dire cioè che si voleva e come lo si voleva (vedi tuo esordio su Comic Art nell’89). Che ne pensi?

Non credo che prima si stesse meglio. O peggio. Diciamo che prima c’erano condizioni diverse, per cui chi voleva emergere doveva saper individuare le crepe in cui infilarsi. Appena si apriva una crepa, via! Dentro! Hai mai provato a infilarti in una crepa? Non erano mica rose e fiori. Oggi ci sono condizioni nuove per farsi conoscere, a esempio c’è internet, uno strumento potentissimo che dieci anni fa io non avevo. Le crepe cambiano. E poi entrare nel mondo dell’editoria non è mai stato facile. Il perché è molto semplice. Siccome l’editore deve vendere, se non sei bravo o non gli interessa il tuo materiale, non ti pubblicherà mai. E questo succedeva anche a me che adesso, grazie a una buona crepa, riesco a pubblicare i miei lavori.

Oltre al mitico Kirby (cui, inoltre, hai dedicato, scusandoti!, il meraviglioso “L’araldo”, liberamente ispirato ai Fantastici Quattro), cosa ha acceso in te la scintilla del “sacro fuoco” (parlo di fumettisti, ma anche di qualsiasi altra cosa)?

Forse la scintilla è nata insieme a me, come credo che nasca insieme a chiunque abbia una dote particolare. La mia è quella di imitare alla perfezione il chiurlo. Poi, anche per l’ambiente in cui sono cresciuto, ho sviluppato il sacro fuoco del fumetto. A casa mia i fumetti erano infatti assolutamente bene accetti, mio babbo li ha sempre letti e come iniziazione di tutto rispetto, quando avevo 5 anni e sapevo già leggere e scrivere, mi diede da leggere due enormi libri che lui personalmente aveva rilegato: la raccolta di tutti i Topolini formato tabloid del dopoguerra. Gli autori che ci sono sopra te li raccomando. Ti dico solo Alex Raymond. Floyd Gottfredson. Al Taliaferro. Se vuoi, però, posso farti sentire il chiurlo che lancia il suo richiamo per la femmina. “Chiò-chiò-chiò-Cruuu!”
Mi è venuto abbastanza bene. Ultimamente, dovendo fare fumetti non riesco più a esercitarmi tanto.

Sei consapevole che, non solo più giovane autore incluso ne I classici di Repubblica, ma realmente “il più grande autore Marvel vivente”, come ti definiscono, tu sei un’icona destinata a durare nel tempo? Il tuo topo sarà, secondo me, come il Topolino dell’ultima scena de “Dimenticati dal tempo”. Se io trovassi la tuta di Rat-Man che svolazza, vuota, nell’aria, sarei presa da un colpo al cuore. La storia di Rat-Man vecchio mi commuove. Quale impatto ha questo sul tuo lavoro?

Mi piace bearmi in questi sogni di grandezza, che poi, tanto, appena mi incontro con gli amici, ci pensano loro, a riportarmi con i piedi a terra. “Ciao coglionazzo!” “Ohilà, merdaccia!”
Ma simpaticamente. Così almeno mi dicono. E poi sono un geologo. E sono del Capricorno. È impossibile che stacchi i piedi da terra. Mi fa quindi molto piacere che quello che faccio sia apprezzato. Poi, se Rat-Man sarà preso per un icona, saranno problemi suoi. Già mi immagino i ragazzini che lo scherzano: “I-co-na!” “I-co-na!” E lui che si arrabbia moltissimo: “Icona sarà tua madre!”

Sei fresco, vivace, geniale. Sei una delle persone che riesce a far ridere e, insieme, a denunciare questioni importanti, come l’aborto, la clonazione. Non guardi in faccia a nessuno. Sei tu, sempre e comunque. L’autoproduzione c’entra con questo tuo non piegarti? L’autoproduzione, in Italia, funziona ancora? Non si rischia, oggi, di rimanere imbrigliati in un circuito troppo piccolo e dispendioso per troppo tempo?

Spesso, non essere disposto a piegarmi mi ha fatto perdere delle occasioni. L’altro giorno c’erano 10 euro per terra, ma non mi sono piegato e li ha presi un altro. Credo che lavori alla Disney.
Diciamo che nelle mie storie mi piace buttare lì degli spunti, poi uno può semplicemente ridere, può riflettere o può voltare pagina. O comprare un altro fumetto. Sono già contento se un po’ ride.
L’autoproduzione derivava da un’altra necessità, cioè quella di farsi conoscere dai lettori in qualche modo. Siccome nessun grande editore mi apriva la porta, dovevo fargli vedere che quello che facevo poteva valere qualcosa. Grazie ai lettori che un po’ hanno riso, ce l’ho fatta. Non so se al giorno d’oggi ci sia ancora molto spazio per l’autoproduzione. I nuovi talenti devono fare i conti con una marea di autori bravi e affermati, di ogni paese, che riempiono gli scaffali di fumetterie ed edicole. Difficile farsi notare. Io stesso, a volte, metto in copertina delle donne discinte, senza motivo apparente, ma se funziona con Panorama…

Hai lasciato la scrittura di Strumptruppen perché non volevi cedere alla “doppia censura”. Adesso, con il tuo nuovo cartone animato, in onda se non sbaglio in autunno sulla Rai, e del quale abbiamo potuto gustare delle anticipazioni nei vari festival, primo fra tutti Lucca Comics, hai incontrato di nuovo problemi del genere? E con altri lavori?

Ho lasciato Sturmtruppen perché ero costretto a selezionare le battute, evitando morti, corpi dilaniati, gag feroci… Insomma, togliendo il 70% di quello che aveva reso grandi le Sturmtruppen. E poi perché scrivendole, mi ero anche reso conto che stavo giocando con qualcosa che non mi apparteneva, perché le Sturm erano Bonvi, ed era giusto che finissero con lui. Come se qualcuno continuasse i Peanuts. Io spero che Bonvi abbia comunque apprezzato lo sforzo per cercare di tenerle a un buon livello.
Con i cartoni animati il problema si è presentato poche volte, ma dando sempre luogo a scontri sanguinosi e ferocissimi, con perdite e vittorie da entrambe le parti. Ho fatto di tutto, per salvare le 52 puntate che abbiamo realizzato. Usavo anche dei trucchi. Quando un censore si avvicinava alle sceneggiature, fingevo di avere un’ala spezzata per farmi seguire e allontanarlo dal loro nido. Devo comunque dire che gli episodi di censura si sono contati sulle dita di una mano. Come sceneggiatori, Marcello Cavalli, Michele Ampollini e io siamo stati molto, molto bravi.

Mi chiedo: se capita di piegare il proprio istinto, il proprio estro, a regole commerciali o a precisi impieghi, siano essi sociali, politici, culturali, la passione non ne va di mezzo? L’opera finita non risulta falsata? Il proprio processo di crescita non è irrimediabilmente castrato?
Si può, in fin dei conti, trovare “il giusto mezzo” tra commercialità e arte?

Ho sempre realizzato Rat-Man per passione, senza mai pormi il problema che fosse commerciale. Quando la Panini ha pubblicato Rat-Man, Rat-Man aveva già un’impostazione tutta sua e funzionava già come prodotto nelle fumetterie. Non mi è stata fatta alcuna richiesta di cambiamenti, non mi sono mai state fatte delle censure. Sono sempre stato libero di divertirmi a scrivere e a disegnare ciò che più in quel momento mi andava di fare. Una libertà totale che credo sia più unica che rara. E questa politica ha ripagato la Panini, perché Rat-Man è diventato un prodotto commerciale di discreto richiamo. Il vero problema è che a volte, troppa libertà stordisce la mente. Ti senti onnipotente. A esempio, volevo fare una storia dove Rat-Man si scontra con Chuck Norris e lo batte.

Parliamo della tua pubblicità progresso sponsorizzata dalla Protezione Civile, nella quale uomini e donne scimmia tentavano di fuggire agli attacchi sinistri del sole. Da piccola sono stata malissimo per una insolazione. Se ci fossi stato tu, di certo, non mi sarebbe successo nulla. Quanto ti fa bene, quanto fa bene alla tua arte – o quanto non fa bene – un’occasione come questa della pubblicità?

Se non facesse bene, non la farei! Invece fa benissimo, perché cambio aria per un po’ e mi cimento con altre cose, con altre sfide, minime, rispetto alla saga del ratto, ma molto stimolanti, anche perché ho lavorato a fianco di Flavio “Kampah” Campagna, artista, regista e produttore di videoclip, che ha fatto cose come un video per gli U2, una pubblicità per la Cherry Coke esposta al MOMA di New York… Cosette così… Ed è di Parma e abita a 300 metri da casa mia… Ma solo finche non scapperà di nuovo a Venice Beach, Los Angeles! Quindi la cosa più bella è stata conoscere Flavio, che è uno spettacolo umano! Quelli degli spot sembriamo noi… uno esagerato e passionale, l’altro perfettino e un po’ antipatico. Io sono il secondo, purtroppo.

Nasci a Pisa nel ’67, poi “cambi idea subito” e, un anno dopo, ti trasferisci a Parma dove vivi ancora oggi con tua moglie. Parti dall’autoproduzione, Rat-Man per caso (come parodia a un tuo stesso fumetto serio) vince il premio come migliore sceneggiatura esordiente, e poi, attraverso Made in Usa e altre testate, proprio grazie all’autoproduzione, arrivi alla Marvel. Dalla Marvel in tutta l’Europa, forse anche in America, in Francia, soprattutto, che sappiamo essere la “madre” del fumetto d’autore. Dal mondo al cartone animato, alla pubblicità, a internet, nei classici di ogni tempo. Come ti senti, Leo? Come dici sempre, sei un geologo, hai studiato geologia, hai fatto il militare (e meno male, come vivremmo senza “L’ultima Burba”?), hai pagato di tasca tua tutti i costi dei tuoi primi fumetti: insomma, sei arrivato dove sei grazie a un raro caso di meritocrazia. “Ti sei fatto da solo”. Cosa ne pensi?
Se guardi indietro, che cosa vedi? Quanto sudore, quante rinunce, quanta necessità di fare quello che hai sempre fatto?

Per ora sono arrivato solo a Parma. Non sono certo degno di allacciare le scarpe a Barbapapà! Che non ha nemmeno i piedi. E a onor del vero non mi sono mai voltato indietro. Ci sono un sacco di nuove cose là avanti, che mi sembra inutile iniziare con i ricordi…
Certo, quello che ho fatto l’ho pagato, non solo in soldi, ma tanti altri modi, anche peggiori. Lasciamoli in un angolo buio.
Però come dici tu… Avevo bisogno di farlo. O così, o una pasticchina azzurra tutte le sere, prima di dormire. Niente più Rat-Man, ma tanta pace e un po’ di bavetta da un angolo della bocca, prontamente asciugata dalla badante.

Vuoi parlare un po’ delle origini del topo? So che ne parli sempre, ma è inutile che le racconti io se il lettore può sentirle direttamente dalla voce del padre.

Era il 1989 e mi avevano detto che c’era un concorso per autori esordienti lanciato dalla rivista L’Eternauta. Così ho realizzato una bella storia seria dal titolo “Ognuno ha i suoi problemi”. Poi, visto che io avevo sempre fatto fumetto umoristico, decisi di mandare alla giuria anche una storiella meno impegnativa. Era uscito Batman, di Tim Burton, un gran successo, nemmeno lo avevo visto al cinema, ma conoscevo comunque le origini di Batman. Così, preso il mio personaggio di base, l’ho vestito con le orecchie da topo e l’ho chiamato Rat-Man, con il trattino in mezzo, come Spider-man, il quale, più di Batman, mi ha ispirato per questo eroe (?) metropolitano, visto che di Batman non avevo mai letto praticamente niente. Niente fino a Frank Miller, ma questa è un’altra storia. L’ho spedita insieme all’altra e ha vinto come migliore sceneggiatura. Il resto è storia… E io la storia l’ho sempre studiata pochissimo, quindi non mi fate altre domande!

Vuoi parlarci del futuro? Il futuro umano, il futuro artistico.

Il futuro umano si preannuncia pieno di lavoro, di soddisfazioni e di pugnalate nel costato, inevitabili, quando un personaggio acquista più popolarità di quella consentita dai lettori. Ma dal momento che ho del lavoro da fare, come un artigiano che non ha tempo da perdere in chiacchiere, chiuderò la porta del negozio, così da non essere disturbato troppo, alzerò il volume della radio e proseguirò fino a sera, come ho sempre fatto.
Il futuro artistico potrebbe spaziare nell’animazione, ma sono sogni nel cassetto, stirati, piegati e messi vicino alle magliette.

Credi che oggi sia ancora possibile crescere così come hai fatto tu? Veramente, dal nulla (il tuo cervello, cit.), al tutto (sempre il tuo cervello!). Non è molto più difficile, adesso, venir notati, riuscire a farsi leggere e pubblicare?

Sinceramente non so cosa rispondere. Io ho fatto un percorso mio, personale. C’è gente a cui basta fare a pezzi gli zii e gettarli in un canalone per farsi notare nel giro di 48 ore. E nemmeno volevano, che di fumetti, mentre li portavano in carcere, giuravano di non averne mai fatti.
Io ai miei zii voglio bene, così ci ho messo più tempo. Sicuramente ci sono autori emergenti che faranno strada, strade diverse dalla mia (io ho preso la prima a destra, ma perché mi sono sbagliato), ma altrettanto soddisfacenti, non solo per loro, ma anche per noi lettori.

Cosa ricordi del periodo della Gazzetta di Parma e di quei “tempi andati”?

Di “quei tempi andati” ricordo mio nonno Adelmo che fumava un sacco e quando pioveva cantava “È arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male, e chi sta così, così”. Molti anni dopo, ho fatto le strisce per la Gazzetta di Parma, dal 1993 fino al 1997. Poi ho smesso perché Rat-Man è diventato egoista ed esigente, ed era geloso che lavorassi per altri.
La Gazzetta era un ottimo esercizio di umiltà. A parte i pagamenti, a volte restavo alzato fino alle due di notte per fare le strisce che dovevo consegnare il giorno dopo, e quando usciva l’inserto del venerdì, dove erano pubblicate, scoprivo che non le avevano messe perché la vecchia che raccontava interessantissime partite di bridge aveva sforato di varie cartelle il suo pezzo e così tagliavano il mio. La vecchia aveva avuto, pare, certe storie con uomini potenti all’interno della Gazzetta e quindi era inarginabile. Oppure c’era il lunario. Piantare i pomodori il giorno sbagliato sarebbe sembrato un delitto, così tagliavano le mie strisce. E ovviamente non me le pagavano.
Ma ho proseguito per anni, perché comunque mi divertivo.

Mi parli del processo produttivo di Rat-Man, ma soprattutto di tutti i tuoi altri, meravigliosi, personaggi? So che c’è un 60-70% di autobiografico, ma come si mescola, secondo te, la vita al fumetto (o all’arte in generale)? Quand’è che l’opera ne soffre, quand’è che invece ne guadagna in vita e in realismo, diciamo, passionale?

Rat-Man. Oddio devo fare il nuovo numero. Panico. Ansia. Circa due settimane. Grande sforzo di volontà su me stesso e inizio a buttare giù delle idee. Una settimana. Provo a scrivere delle pagine. Un giorno. Non viene niente. Panico. Ansia. Circa due settimane. Telefona Andrea Plazzi “A che punto sei?” Rispondo: “Tranquillo!, Ho già tutto in mente!”. Piango. Circa tre giorni. Mi lamento con mia moglie, che ormai fa “sì, sì” con la testa, intanto continua a darsi lo smalto. Poi la roba in testa è talmente tanta che si rovescia sui fogli. Circa una settimana così, poi resta solo da disegnarla. E mi rilasso. A volte. A volte devo disegnare 18 pagine al giorno, ma dopo 5 svengo.
Alla fine ce la faccio. Questo funziona anche per tutti gli altri personaggi.
La vita si mescola al fumetto? Certo. Quando Rat-Man è stato pubblicato ne I Classici di Repubblica ho fatto una storia di 4 parti che diceva “grazie, non sono degno, ma grazie”. 4 albi. E sono anche piaciuti. Grazie! Quando la vita si mescola nel fumetto ne guadagna sempre, secondo me. Il peggio è quando il fumetto si mescola alla vita.

Rat-Man morirà nel 2014, ti stai preparando al “vuoto cosmico” che verrà dopo di lui? Come?

No, non ci penso molto, ho troppo da fare. Poi lo so che mi spaventerò, la morte mi spaventa, così continuerò disperatamente a fare Rat-Man, come accanimento terapeutico!

Quali sono i tuoi autori preferiti? Parlo in generale, cinema, letteratura scritta, letteratura disegnata eccetera.

Woody Allen. Paolo Nori. Garth Ennis. È un periodo che di loro non mi perdo nulla.

Tu ci hai insegnato che il colpo di scena a tutti costi non aiuta il lettore a farsi sorprendere dal finale, ma che al massimo mina la riuscita dell’opera. Io credo sia un insegnamento importante, da potersi allargare a tutti i tipi di “arte”. Ci vuoi raccontare qualcosa di più della tua “poetica”?

Grazie, ma io sono sempre stato un pessimo poeta. Ho scritto delle poesie in rima che ho regalato a mio papà per la sua festa, quando avevo pochi anni, di cui ancora mi vergogno, anche se a mio papà hanno fatto piacere. Penso. Almeno mi sembrava. Scusa, babbo. Il colpo di scena che rovina una storia? No, assolutamente, se tutta la storia è tesa verso quel colpo di scena. A volte non è necessario. A volte basta una frase, che però ti chiude tutto il discorso. Magari sommessa, ma che ti illumina tutto quello che hai letto fino a quel momento. Ci sono a volte storie che sono belle così, che non hanno bisogno di colpi di scena, come il film “Transamerica” o come “Manhattan”, o come i libri di Paolo Nori.

Leggo che fondamentalmente ami prendere in giro i tic dei supereroi. Le tue parodie, infatti, sono solo un pretesto per una storia che prende molto dal reale. Ma quanto devono le tue opere al fumetto degli anni Sessanta-Settanta? Quanto ancora ti senti affezionato ai Fantastici Quattro e all’Uomo Ragno (dato che dici più volte che di Batman non hai mai letto nemmeno una storia)? Come convivono parodia dei supereroi e realismo?

Convivono benissimo, dal momento che niente è più demenziale di pensare un supereroe nella vita reale. Uno che ha una calzamaglia colorata e che dice cose altisonanti in mezzo a viale Pier Maria Rossi a me lascia molto perplesso. Anche perchè con il traffico non si sente cosa dice.
Eppure negli anni ’70 bastava pensare a una città lontana come New York e tutto era possibile. E tutto era plausibile. E io sono tutt’ora molto affezionato a quelle storie, su cui ho passato la mia adolescenza da nerd chiuso in casa. Poi si cresce, si apprezzano altri tipi di storie, soprattutto con la tipa, ma quelle storie strampalate degli anni ’70 ti rimangono dentro. Così inizi a scrivere di un tipo che nella realtà vive come se fosse uno di quei fumetti, e da lì nasce il meccanismo comico.

Sei una delle persone più simpatiche, genialmente simpatiche che io conosca. Ma come sei nella vita reale? Quanto di te, in prima persona, c’è nell’uomo ratto o nei tuoi altri personaggi?

Grazie per i complimenti, non sono meritati, ma li metto via, ratto, ratto, prima che tu te ne accorga.
Nella vita reale sono come un contenitore con la verdura sott’olio che perde, dentro la borsa. Te ne accorgi che ormai è troppo tardi. Nei miei personaggi ho distribuito lati del mio carattere, così che nessuno di loro è veramente come sono io. E probabilmente, anche unendo tutte le loro caratteristiche, mancherebbe sempre qualcosa. In sostanza, non sono uno che ti rimane impresso, quando lo incontri. Ma io mi ricordo di te.

Adoro la serie di “Venerdì 12”, l’ironia dell’amore, la figura obliqua di Giuda, le donne-bambole gonfiabili del grossolano, nostalgico protagonista-padrone. Del film quasi omonimo non rimane praticamente nulla, qual è lo spirito che anima il susseguirsi di questi esilaranti episodi? Chi sono Aldo, Bedelia, Giuda?

Aldo, il ragazzo abbandonato dalla ragazza, ero io. Giuda erano i miei amici che mi prendevano per i fondelli, incuranti del mio dolore. Bedelia era la ragazza che mi ha tagliato di brutto. Ho vissuto davvero una storia dell’orrore, ecco perché quel titolo. Poi, poco a poco il tempo è un galantuomo e adesso lei si è completamente scordata di me.

Ci parli delle tue tecniche prettamente fumettistiche, e di quelle invece tecnico-letterarie?

Eh? Sei troppo avanti.

Quanto ha influito sul tuo fumetto, e soprattutto su Rat-Man, l’adozione del colore per alcune tavole?

Direi nulla. Il colore è stato messo in una serie di ristampe, successive alla creazione delle storie stesse. Se dovessi creare una storia a colori, allora sì, credo che ciò influirebbe sulla disposizione delle vignette e sulla loro realizzazione.

Come si lavora col proprio fratello? E qual è, in generale, il tuo rapporto con collaboratori e amici (Andrea Plazzi eccetera)? sei un capo esigente? Esigi più dagli altri o da te stesso?

Mi trovo molto bene. Lorenzo, mio fratello, è uno dei migliori coloristi in circolazione nel mondo. Non perché sia mio fratello. Io ho solo la fortuna di averlo come fratello. Ovviamente ci sono anche momenti di screzio, soprattutto quando ci sono le scadenze che si avvicinano, ma alla fine, quando vedo il disegno colorato, è sempre uno spettacolo.
Andrea è invece il mio amico/fratello maggiore che mi protegge dai bulli dell’editoria e mi permette di stare tranquillo. Tipo: sono lì che disegno pagina uno di un numero in ritardo di un mese nella consegna, un aereo ha centrato il mio palazzo, la Panini è in mano a terroristi ceceni che vogliono pubblicare “Guerre Segrete 4”, uno tsunami ha risalito il Po, girando a sinistra alla confluenza con la Parma e sta per spazzare via l’Emilia Romagna. Andrea mi telefona e mi dice solo: tutto bene, quando hai finito fammi sapere.
Poi ci sono i “cugini diversi”, Michele e Marcello, che sono saliti a bordo da alcuni anni e che si sono integrati a meraviglia con lo spirito di Rat-Man, perché ne hanno uno loro che funziona benissimo.
Spesso ci troviamo tutti in trattoria, perché Rat-Man è soprattutto questo.

Sei soddisfatto del tuo lavoro, di solito? Dov’è che pensi potresti migliorare?

Sì, sono sempre abbastanza soddisfatto. A volte, per consegnare velocemente, devo rinunciare a utilizzare alcuni strumenti di lavoro che ai miei occhi fanno la differenza, mentre un profano magari non lo nota. Ma siccome sono molto pignolo e per spostare una cosa di un millimetro rifaccio la vignetta intera, direi che sono sempre abbastanza soddisfatto. Posso migliorare sempre e dovunque. La tensione creativa è volta sempre in quella direzione, quale che sia il risultato finale.

Ci parli del rapporto tra andamento della storia, trama, disegni, bianco e nero, colore, nella tua produzione?

Sarà difficile che ne possa parlare, nasce tutto da un magma informe, mi ci butto dentro e dopo due o tre settimane la storia è lì, sul tavolo, e io la guardo e mi chiedo dove l’abbia pescata.

Dici che la parte più importante del lavoro è la creazione della storia, nella tua testa, poiché i disegni ti rilassano. Sei, quindi, fondamentalmente un narratore. Che cosa racconti? Quanto sei arrabbiato? Quanto sei innamorato? Che tipo di scrittore sei?

Sono uno scrittore-lettore. Se leggo le mie storie e non mi piacciono, le riscrivo finché non vanno bene. Cosa racconto? Si racconta sempre di se stessi, inevitabilmente, al di là di tutte le metafore usate per confondere le acque. Così, siccome sono egocentrico, cioè innamorato di me stesso, lo sono anche quando scrivo. Però non pensiate che sia così tanto innamorato di me stesso. In fondo, non voglio sentirmi legato.

Che tipo di letteratura scritta ti piace, che tipo di autori, quali autori?

Di solito prediligo la cosiddetta narrativa contemporanea. Gli autori devono essere in grado di agganciarmi al testo e di spingermi a finire il libro. I nomi, poi, non li ricordo mai. Ormai mi arrendo al fatto che devo avere una forma mia di alzheimer, che non ricordo mai niente, solo sensazioni. Caldo, poi freddo. Un po’ come quando da piccolo mi facevo la cacca addosso.

Non sono Marzullo, ma. Fatti una domanda e datti una risposta. Per favore.

– Hai finito di dire sciocchezze?
– Sì.
– Grazie!